Relazione tenuta il 24 aprile al Convegno  "Differenti ma non diseguali" presso l'Università di Bergamo 
      Crimini e misfatti della  divisione sessuale del lavoro 
             
            di Maria Grazia Campari 
        
        
        
      Quando ho ricevuto da Nicoletta Pirrotta l’invito a  partecipare a questo incontro, la data vicina del 25 aprile mi ha fatto pensare  a un titolo che desse conto del tradimento della resistenza e della  Costituzione (che ne rappresenta, come è stato detto, il programma politico) da  parte di chi la definisce apertamente un ferro vecchio e anche di chi fa mostra  di pubbliche devozioni, ma partecipa a semiprivate cancellazioni dei principi  fondanti  attraverso Commissioni varie  (come la passata Bicamerale). 
Penso  all’articolo 1 della Costituzione che definisce l’Italia una Repubblica  democratica fondata sul lavoro e a tutti gli articoli sui “rapporti economici”  (principalmente da 35 a 41) che sono ampiamente contraddetti, a partire dal  1997 (entrata in vigore del cosiddetto  pacchetto Treu sul lavoro). Da allora la Repubblica italiana appare piuttosto  fondata sul profitto di una minoranza a scapito del benessere di una  maggioranza di cittadini. 
Il dato emerge anche da avvenimenti recenti, in  particolare dalla presentazione del piano A (con minaccia di piano B) da parte  della FIAT per la cosiddetta “fabbrica Italia”. 
 
Si richiede, stando alle notizie di stampa,  maggiore flessibilità di tutta la forza lavoro per la saturazione degli  impianti, contemporaneo contenimento del costo del lavoro, aumento dei turni  notturni e di sabato, revisione (al ribasso) degli accordi sindacali, utilizzo  degli ammortizzatori sociali, senza precisare quanti saranno gli esuberi, posto  che gli investimenti sono previsti solo per gli stabilimenti di Mirafiori,  Cassino, Pomigliano d’Arco, Pratola Serra, Melfi, Termoli. Sulla complessiva  situazione del gruppo manca qualsiasi certezza, ma è nota la chiusura dello  stabilimento di Termini Imerese e la conseguente estromissione della mano  d’opera occupata. Migliaia di esuberi sono prevedibili. 
A Mirafiori, un operaio del montaggio commenta:  “Cinesi, giapponesi, tedeschi, non è importante. Veniamo tutti spremuti. Non  vuoi essere spremuto? E allora non ti faccio lavorare. Hai paura e alla fine ti  adegui. Finirà così. I sindacati fanno un po’ di melina, ma poi firmano”.  Daniele: “In un anno siamo passati dagli straordinari alla cassa integrazione  (guadagni)” e Luisa: “Ho 31 anni. Arriverò alla pensione, forse, distrutta” (La  Repubblica 20 aprile 2010) 
 
        Le dinamiche globali sottese a entrambi i piani  della FIAT - intensificazione dello sfruttamento in alternativa alla  delocalizzazione - mostrano un percorso che ridefinisce al peggio il modello  sociale complessivo e mina le fondamenta della democrazia costituzionale. 
        Nell’epoca dell’”orrore economico” (titolo di un  saggio di V. Forrester Ponte alle Grazie 1997) soggetti detti polifunzionali  vivono esistenze etero dirette, volti a scopi non autodeterminati, preda  dell’altrui dominio. 
         
        La  precarietà esistenziale porta a scene di disperazione: occupazione dei luoghi  di lavoro, dei tetti delle fabbriche, delle gru, delle aule municipali, delle  stazioni ferroviarie o aeroporti, persino di isole come l’Asinara, tutto per  dare visibilità a situazioni di lavoro negato e di mancanza dei mezzi di  sussistenza, silenziati nella inconsapevolezza dell’opinione pubblica.  
        Lettere a  quotidiani (Liberazione, 29 dicembre  2009) riferiscono ”Sono un lavoratore  terminale”, licenziato dopo ben dieci anni di contratti a termine; sporadiche  notizie di stampa danno conto persino di suicidi di alcuni fra i  lavoratori terminali (casi Telecom).  
        L’analisi  più diffusa del contesto sottolinea la mancanza di una valida resistenza  collettiva organizzata dai sindacati, la loro attuale scarsa rilevanza nel  porre un freno agli esiti più nefasti della crisi a carico dei lavoratori, la  rappresentazione fugace in luogo di una rappresentanza efficace che sembra  ormai svanita (Ilvo Diamanti, la  Repubblica, 17 gennaio 2010).  
         
        Dati  Eurostat evidenziano che la crisi colpisce più le donne che gli uomini, che  un’italiana su due non lavora -con punte elevate oltre il 60% nel Meridione- al  contrario degli USA ove tre disoccupati su quattro sono uomini e, nei prossimi  mesi, oltre la metà della forza lavoro sarà composta da donne.  Contemporaneamente, settori della Confindustria considerano l’impiego  femminile, soprattutto in industrie medio-grandi, come fattore salvifico e  sembrano appoggiare incondizionatamente le scelte imprenditoriali di  predisporre servizi di sostegno alle mansioni domestiche delle dipendenti  (asili nido, lavanderie, catering), per utilizzare al meglio in azienda i loro  apporti di sapere e la duttilità professionale . 
 Ciò procede in perfetta consonanza con molteplici  casi in cui la scelta femminile è stata quella  di coltivare contemporaneamente carriera e lavori di cura  famigliare, usando il part time conciliativo, valorizzando nel rapporto di  lavoro la conoscenza femminile degli aspetti relazionali e organizzativi in  contesti differenziati. 
 
Il  “biocapitalismo”, nell’afferrare le vite di esseri umani considerati  subalterni, manifesta interesse particolare per l’ampio spettro di vite  femminili  colonizzate dal lavoro non  pagato. Vite precarizzate dal pensiero  unico patriarcale/capitalista assai prima dell’avvento del precariato  diffuso, esito perverso ma prevedibile del soggetto  unico maschile.  
Secondo me,  la precarietà del lavoro e della vita di molte donne (oggi propagatasi agli  uomini) trova le sue origini, tra l’altro, nelle ristrutturazioni capitaliste  degli anni Ottanta: l’intreccio capitalismo-patriarcato fornisce una lente per  analizzare l’esistente, se si tiene in considerazione il rapporto fra conflitto di classe e conflitto di sesso. 
 
Qualche  esempio su cui riflettere viene da alcuni casi che mi sono capitati nella  pratica di avvocata lavorista, iniziata negli anni Settanta del secolo scorso.  A mio parere, essi illustrano nella concretezza delle vite coinvolte, una  deriva politica e sociale sulla quale è opportuno riflettere per immaginare un  diverso futuro, renderlo pensabile e forse possibile. 
La storia delle scelte imprenditoriali della grande  industria degli ultimi decenni, le modalità delle azioni (più o meno) a  contrasto messe in atto dalle organizzazioni dei lavoratori, sono per molti  versi esempi illuminanti degli esiti che derivano dalla divisione sessuale del lavoro che vede riservata agli uomini la  produzione di merci retribuita e alle donne la riproduzione sociale gratuita.  
Nel corso del 1987, la FIAT sospese in Cassa  Integrazione Guadagni fissa a zero ore seimila dei sedicimila dipendenti  dell’Alfa Romeo, stabilimento di Arese, che aveva acquisito  dall’IRI per un prezzo simbolico nell’anno precedente. Si formò un Comitato di  cassintegrati che, con azioni sindacali e vertenze giudiziarie, tentarono di  resistere al provvedimento, fortemente penalizzante sotto il profilo economico  e professionale (venivano contemporaneamente prodotti nuovi modelli di auto).  Poche lavoratrici cassintegrate fecero parte di quel Comitato e contrastarono  la sospensione, ritenendo più conveniente percepire il salario decurtato e  permanere in una situazione che facilitava il lavoro domestico di cura. 
 
L’esito delle cause di impugnativa delle  sospensioni fu generalmente favorevole ai lavoratori, poiché il Giudice del  lavoro ritenne i provvedimenti della FIAT non sufficientemente motivati da  difficoltà oggettive e reintegrò gli estromessi nel posto di lavoro. La FIAT  pensò allora di utilizzare un escamotage che rendesse difficile la concreta attuazione dell’ordine di giustizia,  trasferendo i reintegrati nel suo stabilimento di Desio (Autobianchi), più  distante e con più intense turnazioni. 
Fu necessaria una seconda causa per annullare il  trasferimento non concordato, quindi illegittimo, secondo lo Statuto dei  Lavoratori. Ebbene, delle poche lavoratrici riammesse al lavoro in seguito alla  prima causa, quasi nessuna fece resistenza, quasi tutte concordarono con la  dirigenza aziendale  una nuova  sospensione in CIG. 
 
Molte dipendenti dell’Alfa di Arese passarono negli anni  successivi di sospensione in sospensione, poi furono licenziate in mobilità.  
Recentemente, nel corso di un convegno tenutosi a Firenze,  sono stata avvicinata da alcune delle mie antiche clienti e ho saputo che, per  l’esiguità della loro pensione, esse hanno dovuto abbandonare le loro residenze  a Milano e Arese (dove il costo della vita non è per loro sostenibile) e hanno  affittato alloggi collettivi nelle vicinanze di Prato, dove le spese per la  sopravvivenza sono più contenute. 
L’adesione al comando capitalistico, connesso a quello  dell’ordine patriarcale (quest’ultimo introiettato) ha segnato in modo  pesantemente negativo le loro esistenze perché le ha sradicate, in età anziana,  dal loro contesto sociale e famigliare, le ha rese precarie in una situazione  formalmente garantita.  
 
Altro episodio, sempre alla FIAT. Nella primavera del 1989,  nello stabilimento di Pomigliano  d’Arco, la società, autorizzata da un accordo sindacale, aveva  stipulato 350 contratti di formazione-lavoro (tipo di contratto allora  applicabile ai giovani fino a 29 anni di età, assumibili per scelta nominativa,  mentre vigeva l’assunzione numerica per anzianità di iscrizione alle liste del  collocamento pubblico) esclusivamente con uomini, escludendo le donne che pure  rappresentavano il 60% circa dei disoccupati iscritti al collocamento. La  palese discriminazione aveva indotto circa trecento donne a costituire un  coordinamento di disoccupate e a presentare congiuntamente trecento domande di  assunzione. Non avendo ottenuto nulla, neppure un intervento sindacale a  sostegno, circa cento di esse si erano organizzate autonomamente e, assistite  da alcuni legali, avevano fatto ricorso al giudice chiedendo l’applicazione  della legge di parità tra uomini e donne in materia di lavoro. Il primo  articolo della legge ( 903/1977) vietava infatti la discriminazione fondata sul  sesso nell’accesso al lavoro.  Il  Giudice aveva accolto le richieste, annullati i contratti stipulati in  violazione di legge e ordinato alla FIAT di convocare per colloqui pre  assuntivi le lavoratrici ricorrenti, ingiustamente escluse. 
 
La gestione sindacale della vittoria giudiziaria  delle interessate è stata la seguente: i 350 contratti di formazione lavoro  furono convertiti in contratti a termine: di essi 336 avevano titolari uomini e  solo 14 titolari donne. Le donne del coordinamento, sostenute da alcune  rappresentanti sindacali, dichiararono l’accordo inaccettabile poiché smentiva  la pretesa e la mobilitazione delle donne, chiesero una rinegoziazione in  termini più aderenti alla decisione di giustizia. La maggior parte del  movimento sindacale, al contrario, oppose l’argomento che la pretesa delle  donne aveva scatenato una “guerra fra poveri” e che solo quell’accordo poteva  evitare che, per ordine del giudice, 350 neoassunti venissero licenziati e  dovessero pagare – 
incolpevoli- l’esito della politica discriminatoria della  FIAT. L’argomento era evidentemente pretestuoso, poiché non teneva conto dell’ingiustizia  a monte che aveva originato l’assunzione -al di fuori di criteri oggettivi- di  quei 350 operai, tuttavia veniva in parte recepito, determinando la spaccatura  del coordinamento e la fine della pretesa femminile di partecipazione a quella  realtà produttiva secondo uno schema di legalità e di giustizia.  
 
Il caso aveva mostrato la mancanza di effettività per le  donne di un ordine di diritti costruito sul soggetto lavoratore neutro/maschile  e ciò malgrado si fossero date la forza di confliggere per affermare  rivendicazioni proprie.  
Episodi analoghi si svolsero agli inizi degli anni Novanta  presso lo stabilimento FIAT di Melfi, ove  fu ancora una volta discriminata la mano d’opera femminile. Nelle parole di Lucia, giovane disoccupata di Potenza  “Ho sperato fino all’ultimo di poter lavorare in Fiat, ma ho dovuto mollare.  Quando le ragioni della produzione schiacciano la mia stessa vita, allora  fuggo. E come me tante sono già fuggite e ancora fuggiranno. La FIAT comincia a  diventare un sogno solo maschile”. La fabbrica era governata dal sistema  produttivo detto “just in time” o della “qualità totale”, un’organizzazione del  lavoro a turni articolati su ventiquattro ore giornaliere e su sei giorni  settimanali. Il sindacato aveva già concesso una deroga anticipata al divieto  legale, allora vigente, di prestazione notturna delle donne, rendendo tale  prestazione di fatto obbligatoria per tutti, in base, questa volta, alla  “logica delle pari opportunità”. Le condizioni di lavoro preventivate dalla  FIAT allontanavano le donne, erano per loro insostenibili; l’accordo, in nome  della parità, di fatto le discriminava. 
 
Casi  non molto dissimili si verificarono nel settore terziario, a prevalente  occupazione femminile, in particolare nell’ambito della ristrutturazione del gruppo La Rinascente di Milano, attuata per fasi successive durante l’ultima decade del  secolo scorso. Anch’essi appaiono significativi di una tendenza alla  precarizzazione  dell’emancipazione  femminile, anche in contesti apparentemente garantiti. 
Autorizzata  da una serie di accordi sindacali, la capogruppo La Rinascente aveva operato  spostamenti di lavoratrici da una società controllata ad un’altra, con diverse  modalità. 
Un  caso aveva coinvolto le dipendenti di un magazzino Upim che, per la  ristrutturazione, era stato in parte adibito a supermercato alimentare (SMA).  Alcune commesse furono spostate da Upim a SMA in base ad una scelta  esclusivamente padronale, non contrastata dal sindacato. L’ipotesi di accordo,  fondata sulla cessione del contratto di lavoro delle dipendenti Upim a SMA, fu  vivacemente contestata dalle lavoratrici, in primo luogo perché comportava una  modificazione di orari fortemente penalizzante rispetto ai loro tradizionali  compiti di cura famigliare, inoltre perché le mansioni previste si erano già  dimostrate usuranti e dequalificate. 
 
Il  dato particolare della vicenda fu che le interessate decisero di partecipare  direttamente ad una gestione conflittuale della contrattazione, eleggendo  alcune delegate di assemblea da affiancare ai rappresentanti sindacali  aziendali e ai funzionari delle organizzazioni provinciali.  A causa degli ostacoli formalmente opposti  dalla direzione aziendale, non fu concessa alle lavoratrici che la richiedevano  la possibilità di essere parte della trattativa e intrecciare direttamente la  propria capacità contrattuale con quella del sindacato. Tant’è che l’accordo  stipulato fra azienda e sindacato, considerato penalizzante dalle dirette  interessate, fu poi impugnato avanti al giudice da molte di loro e annullato  perché ritenuto lesivo dei loro diritti indisponibili, con la conseguenza della  loro reintegrazione nelle  precedenti  mansioni presso il reparto Upim di provenienza. Questa volta la sentenza fu  eseguita integralmente: modifiche contrattuali peggiorative non furono  consentite.  
L’esperienza  positiva ha però riguardato le addette di un singolo magazzino del gruppo La  Rinascente, senza possibilità di generalizzazione ad altre realtà simili del  complesso aziendale, per la contrarietà del sindacato rispetto all’annullamento  dell’accordo stipulato. 
Ne è  conseguito un indebolimento della resistenza rispetto a successive radicali  ristrutturazioni nel gruppo -implicanti una perdita di occupazione- e un  offuscamento della capacità sindacale. 
Si  possono svolgere diverse considerazioni, analizzando i casi occorsi nei diversi  settori dell’industria e del commercio, nonché   i relativi accordi sindacali. 
 
Nelle  vicende del gruppo FIAT, quando si è data la resistenza di alcune lavoratrici  fuori o contro l’organizzazione sindacale, si è visto chiaramente che, in  quelle situazioni, il conflitto più  
forte  era quello che si manifestava all’interno del mondo del lavoro, fra donne e  uomini. Poiché le imprese, con la complicità di lavoratori e sindacalisti,  sceglievano di assumere o mantenere al lavoro solo maschi, chiaramente in  funzione dei propri interessi di classe (coincidenti in questi casi con quelli  di sesso maschile), in violazione della legge di parità, che faceva parte del  diritto del lavoro, diritto allora strutturato sul principio del favore per la  classe lavoratrice. L’alleanza maschile fra imprenditori e lavoratori diventava  particolarmente evidente nei casi di successo giudiziario delle lavoratrici,  salutati da lavoratori e sindacalisti non come una vittoria della classe, ma  come vittoria di una parte della classe sull’altra, quindi come una sconfitta  di classe, capovolgendone il senso in funzione ideologica per sostenere il  proprio sesso. Questo significava, allora, che i lavoratori e i sindacalisti  avevano attivato un conflitto di sesso all’interno della classe  lavoratrice, giungendo al punto di scegliere di depotenziarsi come classe (se  si intende, come io intendo, la classe costituita dagli uomini e dalle donne  che hanno una certa collocazione nei rapporti di produzione) piuttosto che  accettare anche solo la legge di parità fra i sessi. Gli esiti di quelle  vicende mi dicono che le lavoratrici perdendo nel conflitto di sesso hanno  perso anche nel conflitto di classe; i lavoratori hanno vinto nel conflitto di  sesso e hanno perso nel conflitto di classe (gli imprenditori hanno assunto o  mantenuto in attività chi volevano loro); la parte padronale ha vinto in  entrambi i conflitti. Il sindacato si è fatto portatore esclusivamente degli  interessi di sesso, al punto di mettersi dall’altra parte nel conflitto di  classe, dato che in quei casi gli interessi delle donne e quelli della classe  convergevano, mentre quelli degli uomini spezzavano l’unità della classe  lavoratrice, quindi la negavano, minandola nella sua resistenza e compiuta  esistenza.  
 
        Riconoscere  il nodo irrisolto del conflitto di sesso significa che, dato tale conflitto, il  conflitto di classe va ripensato per meglio attrezzarsi. 
        Sembrano  significative, a questo proposito, le osservazioni contenute in un  saggio-inchiesta del 2009 edito dalla CGIL Liguria (Cereseto, Frisone,  Varlese“Non è un gioco da ragazze”) sulle esperienze di alcuni coordinamenti  femminili sindacali operanti negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso.  Nel settore metalmeccanico, le delegate dei Consigli di Fabbrica, votate da una  maggioranza di lavoratrici e “sostenute nelle loro azioni da una partecipazione  vivace e costante” incontrano la resistenza del sindacato ufficiale che  ostacola le loro proposte. Dichiarano: “Quelli che pensavano: diamogli corda,  così abbiamo più i scritte. Quelli che dicevano: Ma siete matte, non vi daremo  mai spazio” E anche: “Ma voi fate queste       rivendicazioni qui in fabbrica, ma…è fuori, non qui in fabbrica che  dovete combattere, perché vi discriminano prima fuori”.  Le donne avevano consapevolezza della  trappola “…era solo un modo per tacitarci…..la cosa che noi abbiamo capito è  che non c’era un “dentro” e un “fuori”, che era una cosa complessiva” (ivi  pag.233, 234).  
         
        La  consapevolezza da sola, per necessaria che sia, evidentemente non basta:  occorre trovare una leva per smuovere le coscienze e immaginare azioni efficaci  a livello sempre più ampio. 
        Riflettendo,  in prima battuta si può dire che si mina l’unità e l’autonomia della classe se  si pensa di identificare il suo interesse complessivo con quello del  lavoratore, soggetto maschile da privilegiarsi nell’ambito della cosiddetta  “guerra fra poveri”, offuscando la resistenza collettiva ai piani  imprenditoriali.  
        I  casi del settore terziario ( La Rinascente/ Upim/SMA) mostrano aspetti più  articolati delle modalità con cui le donne stavano nel rapporto di lavoro. 
         
        In  primo luogo, il contrasto al trasferimento da un’azienda a un’altra era dovuto  per molte di loro non tanto alla dequalificazione (pure evidente) rispetto alla  professionalità acquisita, ma all’ostacolo rispetto ai tradizionali compiti  famigliari che esse privilegiavano. 
        Ciò autorizza  la riflessione che anche nelle situazioni di emancipazione garantita, a livello  sociale le donne sembrano detenere più che non diritti individuali, diritti  condizionati dalla loro 
        appartenenza  famigliare, prestandovi una complice adesione che sembra collocarsi su una  linea che nega l’autodeterminazione. 
        Tuttavia,  l’aspetto bifronte della situazione sta nel fatto che proprio questa specificità  comportamentale ha dato origine al conflitto che ha operato un risveglio della  coscienza di sesso e di classe, ha dato luogo alla pretesa (inaudita a quel  tempo e, probabilmente, ancora oggi) di affiancare ai rappresentanti del  sindacato altre rappresentanti, donne scelte per una consonanza di intenti su  un obiettivo e per la capacità di sostenere un punto di vista discusso e condiviso. 
         
        Il  tentativo, sebbene frustrato per il suo isolamento, ha mostrato che alcune  lavoratrici erano propense ad una modalità diversa e relazionale del rapporto  di rappresentanza: mandato e verifica costantemente esercitati in progress, un movimento pendolare fra il luogo del  conflitto e il luogo di donne che ha autorizzato la presenza nel conflitto, ciò  che significa assunzione di responsabilità, capacità di rendersi reciprocamente  conto e di trovare le opportune mediazioni fra aspettative e possibilità  concrete di praticarle.  
        In  altre parole, si era capito che si rendeva necessaria una contrattazione fra  donne (lavoratrici, sindacaliste, delegate) per definire gli obiettivi, gli  strumenti e per adeguarli alle situazioni che continuamente si modificano, alla  luce del sapere e della forza acquisiti. Non è sufficiente la contrattazione  iniziale, perché appena raggiunto l’obiettivo (ad esempio, la sentenza) il  patto si esaurisce e per procedere occorre stabilire nuove regole condivise. 
         
        Nell’occasione  menzionata, la modalità della relazione fra alcune donne ha consentito di  tentare una trattativa efficace per le rappresentate, che hanno conseguito il  loro obiettivo, aderente ad interessi di sesso e di classe contrapposti a  quelli padronali. Essa però non ha conosciuto diffusione e articolazione  adeguate a causa dal monopolio maschile della rappresentanza sindacale. 
        Da  quell’esperienza è scaturita una riflessione che ha portato all’ipotesi dell’agente contrattuale femminile, sostenuta  anche da una proposta di legge sulla rappresentanza nei luoghi di lavoro,  formulata dall’associazione milanese Osservatorio sul Lavoro delle Donne e  molto discussa fra le sindacaliste della CGIL e della CISL  negli anni 1998/99, allorchè era all’esame  del Parlamento il Testo Unificato di leggi sulle Rappresentanze Sindacali, ora  dato per disperso nei meandri istituzionali. 
         
        Quella  proposta era intesa a porre un limite all’esclusività  maschile nella rappresentanza, prevedendo liste elettorali per le  rappresentanze sindacali aziendali a doppia composizione (femminile e  maschile), con una presenza di sesso negli organismi elettivi proporzionata  alla percentuale di presenze nella base elettorale di lavoratrici e  lavoratori.  Prevedeva inoltre la  possibilità di elaborazione di piattaforme contrattuali da parte delle  interessate e la verifica attraverso referendum aziendali di ogni ipotesi di  accordo e contratto collettivo, l’obbligo di 
        informazioni  dettagliate nei casi di ristrutturazioni e di cessioni di rami aziendali  da parte degli imprenditori. 
        L’idea  che sosteneva la proposta era quella di favorire l’intreccio di esperienze di  esperienze diversificate di donne e uomini, usandole come strumento per  potenziare le loro ragioni. Non è andata così e oggi il destino femminile di  mano d’opera ultraflessibile di riserva, ha coinvolto la grande maggioranza  degli esseri umani messi al lavoro. 
         
        La  polverizzazione dei luoghi di lavoro e la divisione fra lavoratori è ora  fortemente sostenuta da una legislazione che nega l’architrave del “favor  lavoratoris”, di matrice costituzionale e la sostituisce con il favore alle  imprese, originata dal prepotere economico finanziario. 
        La  situazione renderebbe auspicabile attivare conflitti, intesi nei giusti termini  di ribellione ai soprusi peggiori che, però, trovano una sponda spesso  insuperabile nella legislazione incentivante la “flessibilità” e nella  competizione globale sul mercato dei lavori. In particolare, per le donne viene  messa in campo una mistificazione che appanna ulteriormente la loro capacità  reattiva. Lo svantaggio della divisione sessuale (o sessista) del lavoro dovuto  principalmente alla missione riproduttiva e ai connessi compiti di cura, è da  alcune/i presentato come vantaggioso promotore di una doppia scelta felice,  famigliare e lavorativa, attraverso il magico ritrovato del part time conciliativo.  
         
        Non  casualmente questo ritrovato è anche inserito in un disegno confindustriale  lungimirante che utilizza la flessibilità femminile -acquisita attraverso uno  speciale sapere relazionale e organizzativo della quotidianità- e l’apporto  gratuito di competenze, nell’ambito della prestazione mercantile divenuta prolungamento  di quella famigliare,  gratuita per  antonomasia. 
        Del  sapere femminile si arriva a dire: “un  lavoro imprenditivo e creativo” che “non si vede nel PIL, non si vede nella busta paga, non si vede negli  indicatori di benessere delle nazioni e degli individui” 
        L’assenza  di compenso per questi apporti innovativi e preziosi, lungi dal determinare  conflitto aperto, viene constatata pacificamente; si sottolinea, anzi, che  esiste una “parola magica per rimuovere  il conflitto: conciliazione tra i due lavori (produttivo eriproduttivo) per entrambi i sessi”.  
        Il  vantato favore femminile per questo tipo di contratto, che dovrebbe contagiare  anche gli uomini, prescinde totalmente da qualsiasi criterio materialistico di  lettura della realtà: da quale posizione sociale e da quale reddito si parla,  con quali ipotizzabili conseguenze sul benessere ovvero sulla povertà femminile  e minorile nei casi di rottura della compagine famigliare (separazioni e  divorzi), con quali riflessi sull’entità delle pensioni. 
         
 La conciliazione si presenta  come una sorta di rifugio individuale che mette al riparo dal duro compito di resistere  alle ingiustizie imprenditoriali e nega la dimensione collettiva della  problematica lavorativa, agganciandola apparentemente al dato biologico  dell’essere donna: nessun conflitto, né di sesso né di classe. Sfuma  nell’inesistenza la dimensione dei diritti da far valere individualmente o  collettivamente. Il doppio scacco di classe e di sesso è introiettato come  normale ingiustizia che resta priva di reazioni oppositive. 
La  cornice dell’esistente non è messa in dubbio, è vista come dato intangibile  della realtà entro cui ritagliarsi spazi e tentare modificazioni di modesta  portata, ammesso che se ne abbia la possibilità. Non è tenuto in considerazione  il danno sociale ed economico che consegue alla dispersione su campi  inappropriati dell’energia femminile, lo spreco di risorse valide tanto  inefficacemente incanalate, l’impoverimento complessivo della società. 
        Si  manifesta un problema di giustizia sociale e di tenuta democratica. 
        I casi riferiti alludono al fatto che non esiste una  giustizia sociale unica, valida indifferentemente per donne e uomini. Ad  esempio, si è verificato che gli uomini hanno praticato la scelta che prevedeva  per loro la priorità nella attribuzione della risorsa lavoro e per le donne, in  tempi di scarsità, nessun riconoscimento diretto.  
         
        Le situazioni descritte avrebbero richiesto un doppio  sguardo critico sul nodo produzione/riproduzione, ma i rappresentanti  incaricati della contrattazione con le parti padronali non possedevano tale  competenza, non erano neppure in grado di comprenderne l’importanza e attivare  competenze femminili, bloccati dalla contraddizione implicita nel conflitto di  sesso. 
        A ben vedere, quel blocco ne ha prodotti altri, si è  allargato a macchia d’olio, ha bloccato il conflitto di classe, ha reso  irrilevanti le classi subalterne nel loro complesso, uomini e donne invischiati  nella stessa rete. 
        Allora, che fare? 
         
        Per tentare di rimontare la sconfitta non si può, a mio  parere, rimanere incrodati ad un ordine unico maschile da cui tutte le regole  promanano. Occorre fare come in montagna, quando si smarrisce il sentiero, si  torna sui propri passi e si cerca ancora, più attentamente.  
        E’  necessario immaginare una strategia che metta al centro la ricerca di un  sentimento di collettività, che freni l’individualismo, quello acquisitivo e  quello difensivo, che attenui la competizione fra soggetti alla ricerca di  soluzioni personali o famigliari in un tessuto sociale disgregato. 
        Sembra  essenziale ripartire dalla base, sfruttando anche iniziali esperienze positive,  imparando gradualmente come procedere nella giusta direzione. 
         
        Le  esperienze del passato consigliano di mettere al centro i soggetti reali, i  bisogni e i desideri diversamente incarnati in donne e uomini; mostrano che  negare soggettività plurime significa incapsulare, togliere autonomia, abituare  alla eterodeterminazione, cancellare resistenza e contrasto contro gli eccessi  del potere, le prevaricazioni dei soggetti sovraordinati, rendere vittorioso,  perché incontrastato, il capitalismo di rapina che ruba dignità e vita a tutti  gli esseri umani comunque sessuati.  
        Penso  che solo quando lo spazio pubblico può essere occupato da soggetti molteplici  che praticano modalità idonee a far sentire la propria voce e a far pesare i  propri desideri, attraverso mediazioni contrattate fra loro, solo allora può  essere ipotizzato un sostanziarsi reale della democrazia. 
        Una pratica di democrazia, secondo me,  inizia con l’eliminazione della illibertà materiale ed emotiva delle donne nel  privato, il che significa superare l’idea di una cittadinanza di seconda classe  che le spinge verso scelte adattative, conformi ai modelli tradizionalmente  imposti, vissuti come espressione dei propri desideri. 
        Questa è  una delle concorrenti modalità (e non la meno rilevante) per attuare una  democrazia aperta al dialogo, un confronto incessante e un conflitto per la  modificazione, nel legame sociale che riconosce a sé e all’altra, agli altri,  pari responsabilità per la vita collettiva. 
        Questa  modalità potrà concorrere a produrre una ridefinizione dell’entrare in  politica, a partire dal fatto che per molte donne il privato cessi di essere la  sfera della privazione. 
         
        Se le donne  cessano di servire (in via quasi esclusiva) le necessità del privato,  l’assoluta libertà maschile rispetto ai vincoli materiali viene meno, con  ricadute positive sulla regola costitutiva e organizzativa della politica. 
        Le fila del  ragionamento sono strettamente collegate: la fine della irresponsabilità  maschile rispetto al privato può concorrere a determinare la fine del  monopolio maschile rispetto alla cosa pubblica. 
    Concludendo, il  misfatto della divisione sessuale del lavoro, sistema di segregazione dalla  sfera pubblica di molte donne, sta non solo nella sottrazione di elementi di  valore alla società, sta anche nell’appiattimento sul sistema dato, nella  obliterazione della conflittualità sociale. 
Ad esempio, nell’immaginario sociale patriarcale e nella  materialità esistenziale le donne hanno una funzione di ammortizzatore, creano  connessioni nel tessuto sociale che non sono di immediato ordine economico, ma  che producono effetti economici, non contabilizzati perché ritenuti non  calcolabili in termini monetari. 
 
Un’osservazione interessante evidenzia che le istituzioni  internazionali hanno saputo strumentalizzare a proprio vantaggio alcune parole  d’ordine dei movimenti femministi, utilizzando anche la sapienza delle donne nel  lavoro di cura per risparmiare l’invio di operatori sanitari in molti Paesi del  Sud del mondo. E’ risultato chiaro, infatti, che il lavoro semigratuito delle  donne, in epoche di carestia o disastri naturali, ha concorso grandemente a  tenere in vita intere comunità e tutto ciò è servito a tagliare programmi e  welfare pubblico. 
Il ragionamento delle agenzie internazionali è stato che  era possibile tagliare la spesa sociale perché le donne non sarebbero venute  meno al loro ruolo di cura, fungendo da ammortizzatore economicamente,  socialmente, emotivamente. (così Paola Melchiori “ I rapporti tra uomini e  donne in una prospettiva transculturale”) 
 
Risulta, quindi, essenziale configgere per acquisire un  giusto riequilibrio dei ruoli fra i generi o rischiamo di essere tutti travolti  dalla marea montante della speculazione globale che cancella esistenze e spazi  democratici. E’ necessario riannodare connessioni e trovare modalità nuove che  consentano solidarietà nuove, di classe e fra i sessi. 
   
        
          
        
    6-05-10  |